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Il vero nome di Rosamund Fischer offre una prospettiva insolita sulla Germania hitleriana, il dramma dell’Olocausto e le conseguenze che la disfatta tedesca al termine del secondo conflitto mondiale ebbero sui cittadini che avevano simpatizzato a vario titolo per il regime. Il punto di vista scelto dall’autrice è quello di una donna ormai anziana, Rosamund Fischer o, meglio, Inge Brigitte Höss, una delle figlie del famigerato Rudolf, capo del lager di Auschwitz, la quale, nella vecchiaia, non senza vergogna, ma anche con molta nostalgia, si riappropria finalmente della propria vera identità, dopo una vita trascorsa a nascondersi sotto un falso nome e a fuggire di nazione in nazione per non essere riconosciuta.

Attraverso i ricordi di un’infanzia felice e spensierata, passata a giocare insieme ai fratelli negli immensi spazi di una sontuosa villa immersa nel verde di una foresta polacca, emergono a poco a poco gli indizi velati di una delle pagine più nere della storia del Novecento: l’odore acre di cui s’impregnava l’aria nelle giornate più ventose, i collaboratori domestici, solerti e gentili, dalle buffe divise a righe, l’alto muro di cinta oltre cui i bambini non potevano andare per nessun motivo, i colpi sordi non meglio precisati e le urla strazianti nella notte, gli arredi raffinati e sempre nuovi con cui la signora Höss si dilettava ad abbellire ogni stanza sempre di più. Con una minuziosa e attenta ricerca storica, Simona Dolce rintraccia infatti nei documenti ufficiali, nei verbali delle deposizioni, nelle lettere private scambiate con il cognato Himmler, i particolari più intimi del ménage famigliare di Rudolf Höss e ne offre una versione romanzata, in cui verità e immaginazione sono sapientemente miscelate insieme.

Dalla narrazione in prima persona della protagonista traspare, però, anche, di pagina in pagina, il lacerante dubbio di coscienza sul proprio coinvolgimento e grado di responsabilità personale nella tragedia collettiva: sono colpevole anch’io? In quale misura? Potevo accorgermi di quello che stava accadendo sotto i miei occhi, ma non ho visto o non ho voluto vedere? Sono queste alcune delle domande che tormentano Inge Brigitte alla soglia degli ottant’anni, interrogativi che la inchiodano alle sue responsabilità e che senz’altro, come lei, si sono posti milioni di civili comuni non appena la storia ha accertato la scioccante verità. Domande che s’adattano, però, anche al nostro presente e che in qualche misura tutti noi oggi potremmo porci.

Prof.ssa Elisa Melotti